Tra memoria e futuro: la voce dello Stauffer ex-Cristiani, intervista a Giovanni Gnocchi

25 set 2025
Giovanni Gnocchi

Vent’anni fa lo Stauffer ex-Cristiani, straordinario violoncello di Antonio Stradivari, ritrovò la sua casa a Cremona. Nei giorni scorsi, dopo un intervento di manutenzione straordinaria, lo strumento è stato nuovamente collocato al Museo del Violino, pronto a continuare la sua storia di testimonianza e ispirazione. A raccontarci la sua esperienza con questo strumento è il Maestro Giovanni Gnocchi, che nel corso degli anni ha avuto più volte l’occasione di farlo risuonare in concerto. Dalle sue parole emerge un aspetto centrale della vita artistica degli strumentisti ad arco: il dialogo continuo tra musicista e artigiano, tra chi dà voce allo strumento e chi ne custodisce la materia viva. 

Maestro Gnocchi, quando ha avuto per la prima volta l’occasione di suonare lo Stauffer ex-Cristiani e in quante e in quali circostanze è tornato a suonarlo dopo quell’esperienza iniziale?
La prima volta che ebbi occasione di suonare questo strumento risale al 2012, proprio a Cremona. Su iniziativa del Rotary Club (con il sostegno particolare dell’architetto Eugenio Bettinelli e del Maestro Paolo Rossini), mi esibii in una sala di Palazzo Comunale – luogo che allora custodiva la collezione oggi conservata al Museo del Violino – in un’audizione che ricordo con grande affetto, soprattutto per la spontaneità con cui si svolsero gli eventi.
Nel 2014 suonai un concerto di musica da camera nel neonato Auditorium “G. Arvedi” del Museo del Violino, mentre nel settembre del 2020, su iniziativa del mio caro amico Marcello Villa, fui invitato a incidere un disco, The Voice of Stradivari, su questo straordinario strumento insieme al pianista Alessandro Stella: un’occasione che non potevo assolutamente perdere.

Quali furono le sue prime sensazioni nel provare questo strumento dalle caratteristiche tecniche così particolari — una forma a metà tra la “grande” in voga allora e la più piccola “forma B”, e una corda vibrante lunga 705 mm?
Sono stato immediatamente colpito dalla ricchezza timbrica di questo strumento: una profondità impressionante, soprattutto nei bassi, davvero fuori dal comune. Il suono scorre liberamente e anche la prima corda possiede qualità sorprendenti; queste caratteristiche rendono il violoncello estremamente duttile. Naturalmente non mancano le difficoltà: strumenti del genere vanno suonati e regolarmente stimolati in maniera sana, cercando di portarli fino ai loro limiti, per evitare che in un certo senso si “atrofizzino”. È quindi utile testarli con repertori vari, pur prestando sempre la massima attenzione alla loro conservazione.
Inoltre, con una corda vibrante sensibilmente più lunga, la mano sinistra deve adattarsi a distanze e rapporti fra le dita “non standard”, e questo richiede il supporto di una tecnica d’arco più incisiva, capace di garantire un’emissione sonora netta, soprattutto nei brani di bravura. La quarta corda risente particolarmente di questa caratteristica.

C’è stato un momento particolare — durante un concerto, una registrazione o una prova — in cui ha percepito in modo speciale la voce unica di questo violoncello?
Durante la registrazione. Suonando brani cantabili che coprono una grande l’estensione dello strumento, come ad esempio il Poema di Skrjabin Op. 32 n. 1 (nella trascrizione del mitico violoncellista Gregor Pjatigorskij), ho avuto l’impressione di essere in paradiso. L’Ex-Cristiani offre una cantabilità, una purezza e un lirismo difficili, se non impossibili, da eguagliare.

Dal punto di vista del musicista, che cosa distingue questo Stauffer da altri strumenti storici che ha avuto modo di suonare (timbro, risposta, proiezione, colori ecc.)?
Ho avuto la fortuna di provare strumenti di liutai come Guarneri, Grancino, Goffriller e Ruggeri, ma questo strumento (e in generale gli Stradivari) ha una rotondità, una purezza e uno spessore di suono impressionanti. Altri importanti violoncelli possiedono innumerevoli qualità e personalità, ma non hanno un timbro così naturalmente levigato. Ci sono strumenti che in un certo senso “ruggiscono” di più e aiutano a riempire di suono le grandi sale da concerto, ma spesso presentano – in misura più o meno accentuata – piccole caratteristiche impurità, che qui sono assenti.

Quanto hanno influito le caratteristiche di questo violoncello sulle scelte di repertorio che avete adottato per il disco The Voice of Stradivari insieme ad Alessandro Stella? Qual è stato il percorso che ha portato alla scelta dei brani?
Quando mi hanno proposto di incidere questo disco ho selezionato due programmi, uno a violoncello solo e uno in duo con pianoforte. Mi sono detto subito: Stradivari è il meglio che ci sia, e dunque occorreva un repertorio capace di mostrare tutta la straordinarietà delle enormi possibilità che questo strumento offre, facendo emergere gli aspetti più unici ed estremi di tale potenzialità. Alcuni brani attraversano e superano l’intera tastiera, oltre le cinque ottave convenzionali; altri esaltano i bassi; altri ancora si distinguono per timbri vellutati e rarefatti. In Rossini, in particolare, emergono tratti quasi belcantistici: colorature, sussurri, canto spianato e recitativi.
Segnalo anche la prima registrazione assoluta di alcuni brani (ad esempio il Rezitativ und Romanze di Wagner-Liszt), mentre altri compaiono raramente nei programmi di sala o nelle incisioni. Ho voluto offrire il massimo per questo strumento (di cui esistono pochissime registrazioni), anche attraverso scelte inconsuete: non si può restare nella comfort zone con uno Stradivari!
Ci tengo inoltre a sottolineare il supporto musicale e umano di Alessandro Stella: oltre a essere un grande pianista (con cui collaboro da vent’anni) è un carissimo amico, e condividere questa avventura con lui è stato un privilegio. Inoltre le sue competenze trasversali – ha fondato anche un’etichetta discografica – sono state davvero preziose.

Come è nata l’idea del progetto discografico con lo Stauffer? Il disco è disponibile su Spotify e qualche mese fa è stato pubblicato in anteprima il brano “Encore” del pianista e compositore Jérôme Ducros — un pezzo virtuosistico e lirico al tempo stesso. Ci vuole raccontare la sfida di incidere un brano così articolato su uno strumento storico come questo?
L’idea, come detto in precedenza, è stata di Marcello Villa. Fu lui ad avere l’intuizione, ormai quasi trent’anni fa, di coniugare artigianato liutario e arte performativa musicale, rendendo possibili esecuzioni e incisioni di opere di autori legati alla città di Cremona, risalenti all’epoca della grande liuteria classica, che attraverso i loro brani hanno contribuito in modo decisivo allo sviluppo e alla diffusione di quest’arte. Tra i musicisti coinvolti figurano Andrea Rognoni, Federico Guglielmo, Claudia Combs, Diego Cantalupi e altri, che hanno dato voce a strumenti come l’Amati Carlo IX e la chitarra stradivariana Sabionari.
“Encore” è onestamente uno dei brani più difficili che abbia mai eseguito: esistono pochissime registrazioni, oltre alla nostra soltanto altre due con il compositore stesso al pianoforte. Il virtuosismo dilaga nella partitura e mette a dura prova entrambi i musicisti. A complicare il tutto, il fatto che ho avuto a disposizione solo poche ore per prendere confidenza con lo strumento, che per ovvie ragioni suono soltanto in occasioni speciali. Ducros stesso, venuto a sapere della registrazione, ha manifestato grande entusiasmo e l’ha condivisa sui social.

Nel disco spicca la registrazione del Lied ohne Worte Op. 109 di Mendelssohn, dedicato a Lisa Cristiani — un’importante eredità storica: la violoncellista fu musa del compositore e lui le dedicò questa splendida pagina. Come si sente a far “rivivere” questa pagina sullo stesso strumento, a distanza di circa 180 anni?
È un’emozione straordinaria pensare che questo brano, apparentemente semplice, sia stato dedicato a Lisa Cristiani, una violoncellista giovanissima che ha avuto il coraggio di imporsi in un’epoca in cui il violoncello era considerato uno strumento “troppo grande” persino per molti uomini. Immaginare questa giovane donna portare con sé lo strumento durante le tournée, fino in Siberia, dove purtroppo perse la vita a causa del colera, rende ancora più forte il legame emotivo con questa pagina.

Il Lied ohne Worte op. 109 può sembrare un brano semplice — tanto che viene proposto spesso ai ragazzi — ma in realtà richiede una delicatezza e una raffinatezza musicale immense. È proprio questo stile aristocratico, tipico di Mendelssohn, che lo trasforma in una sfida interpretativa: restituirne la finezza e l’intensità significa, in qualche modo, far rivivere non solo la musica, ma anche la figura straordinaria di Lisa Cristiani. come maneggiare un cristallo delicatissimo, un movimento sgraziato basta per guastarne la perfezione.

Facendo un balzo in avanti, lei suona un violoncello di Gaetano Sgarabotto (1930): che storia c’è dietro questo strumento e quali sono le caratteristiche che più apprezza?
Il violoncello di Gaetano Sgarabotto del 1930 ha una storia molto interessante. Io ero entrato in amicizia con il direttore d’orchestra Umberto Benedetti Michelangeli — avevo anche suonato sotto la sua direzione — e un giorno sua moglie, una persona carissima e restauratrice d’arte, mi raccontò che in famiglia avevano questo strumento, rimasto inutilizzato per circa settant’anni. Era appartenuto a un bisnonno che aveva suonato alla Scala. Ogni tanto l’avevano fatto provare ad alcuni amici, ma nessuno era mai riuscito a ricavarne una vera risposta sonora: lo strumento era in condizioni pessime, scollato, con un set-up praticamente inesistente.

Quando l’ho visto, ho pensato che sotto quella scorza ci fosse qualcosa. Così ho suggerito di farlo sistemare. Dopo un buon set-up lo strumento è letteralmente esploso: inizialmente, essendo rimasto fermo così a lungo, aveva bisogno di essere suonato, ma poco alla volta ha rivelato una voce incredibile.

Con questo violoncello ho eseguito grandi concerti con orchestre sinfoniche: la Sinfonia Concertante di Prokof’ev, il Concerto n. 1 di Šostakovič, il Concerto di Elgar… Li ho suonati in sale da più di duemila persone. Lo scorso aprile, ad esempio, a Città del Messico ho tenuto un concerto di Šostakovič in una sala da 2300 posti, ed è stato straordinario.

È uno strumento con una potenza enorme, con dei registri di grande fascino e una luminosità di suono molto interessante. Credo che abbia ancora bisogno di tempo per dare il massimo, ma sicuramente ci stiamo conoscendo sempre di più. Ormai sono un paio d’anni che lo suono, ed è un compagno di viaggio che continua a sorprendermi.

Se dovesse descrivere le differenze principali fra il suo Sgarabotto e lo Stauffer, quali sarebbero gli elementi di maggior rilievo — in termini di timbro, proiezione, risposta e comodità esecutiva?
Lo Stauffer rappresenta l’eredità degli strumenti antichi: essendo stato suonato per generazioni, ha sviluppato una tavolozza espressiva vastissima. Ogni sfumatura, anche la più sottile, viene restituita con precisione e naturalezza. Nei momenti più intimi offre timbri vellutati e sonorità rarefatte; nei passaggi più brillanti riesce a sostenere una proiezione ampia, senza mai perdere eleganza.  In un certo senso è come se il violoncello stesso ti suggerisse i colori. È uno strumento maturo, aristocratico, che invita a osare.
Lo Sgarabotto ha una storia più recente e particolare: rimasto fermo per settant’anni, solo di recente ha ripreso vita. Ha una voce potente, luminosa, con registri di grande fascino e una straordinaria capacità di riempire sale da concerto da oltre duemila posti. È però ancora “giovane”: sta crescendo, maturando insieme a me. Ogni volta che lo suono mi sorprende e mi stimola a esplorarne il potenziale.

Quali insegnamenti ritiene che un liutaio contemporaneo possa trarre dallo studio diretto di strumenti storici come questo Stauffer? Qual è, secondo lei, il valore culturale e musicale di riportare in vita strumenti storici attraverso restauri così accurati?

Dal punto di vista costruttivo non posso entrare troppo nel dettaglio, non essendo il mio mestiere. Quello che però mi sembra importante sottolineare è che, così come esistono diverse scuole violinistiche – pensiamo a figure come Jasha Heifetz o Fritz Kreisler, che nello stesso periodo incarnavano approcci tecnici anche radicalmente diversi – allo stesso modo in liuteria non esiste un “dogma” unico o una ricetta valida per tutti. Ci sono soluzioni costruttive anche opposte, eppure tutte hanno dato vita a strumenti che hanno avuto una loro storia e una loro fortuna.

Quello che conta davvero, a mio avviso, è la messa a punto dello strumento. Un ottimo strumento con una cattiva messa a punto può risultare praticamente insuonabile, mentre uno mediocre, se ben messo a punto, può sorprendere e dare risultati assolutamente dignitosi. È un po’ come in cucina: certi ingredienti crudi sono immangiabili, ma se cucinati con attenzione possono diventare ottimi.

Per questo credo che, per un liutaio contemporaneo che studia strumenti storici come uno Stauffer, la lezione più preziosa non stia tanto in un’unica soluzione costruttiva da imitare, quanto nella capacità di essere curioso, sperimentare, avere orecchio e la disponibilità ad ascoltare chi lo strumento poi lo suona. È lì che si gioca la vera differenza.

Un pensiero sulla liuteria contemporanea a Cremona e nel mondo: dove vede le tendenze più interessanti e quali sono, a suo avviso, le sfide future?

Se posso esprimere un’opinione molto personale, direi che una delle sfide più delicate per la liuteria contemporanea è quella di non ridursi soltanto alla riproduzione fedele di strumenti “da museo”: capolavori, certo, ma rischiosamente immutabili. La vera grande tradizione della liuteria, a Cremona come altrove, è stata sempre segnata dall’innovazione, dalla curiosità e dall’apertura mentale. I grandi maestri del passato sperimentavano forme diverse, dimensioni diverse, materiali diversi. Non si limitavano a copiare, ma cercavano soluzioni nuove.

Per questo, secondo me, il futuro non sta nel ripetere all’infinito i modelli del Seicento o del Settecento, ma nel tenere viva quella stessa attitudine sperimentale, avendo sempre chiaro in quale tempo viviamo. Siamo nel 2025: oggi non si suonano solo Bach o Beethoven, ma anche Widmann, Britten, Šostakovič, Berio… repertori che richiedono strumenti con caratteristiche adatte alle sale da concerto contemporanee e al mutato contesto sonoro.

La sfida è proprio questa: rimanere fedeli allo spirito della tradizione, che è spirito di ricerca, senza cadere nel dogmatismo. Continuare a sperimentare, ad ascoltare, ad adattarsi: questo, secondo me, è ciò che renderà la liuteria contemporanea davvero vitale.

Photos by Andrej Grilc taken at the Museo del Violino in Cremona

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Filippo Generali

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