Krylov e Say. Un concerto che ha riconciliato intelletto e istinto, tecnica e poesia

27 ott 2025
Krylov Say

C’è qualcosa di rituale e insieme di vertiginosamente teatrale nel concerto che Sergej Krylov e Fazil Say hanno offerto all’Auditorium del Museo del Violino di Cremona, nell’ambito dello STRADIVARIfestival.

Un incontro fra due personalità ardenti, due interpreti per i quali la musica è linguaggio primigenio, ma anche gesto vitale, impegno civile e atto di presenza nel mondo.

Il programma — Beethoven, Wagner, Say — sembrava costruito come una parabola drammaturgica: dalla lotta eroica della Sonata a Kreutzer, attraverso la dissoluzione amorosa del Tristano, fino alla catarsi contemporanea della Sonata n. 2 “Kaz Dağı – Mount Ida”, in cui la distruzione della natura si trasfigura in rito di speranza; un percorso che ha attraversato tre secoli di inquietudine umana.

Gli accordi spianati del violino solo che aprono il capolavoro beethoveniano hanno tagliato i volumi dell’auditorium con una densità scolpita, presentando il suono di questo impareggiabile Stradivari al suo debutto nell’auditorium Arvedi nel migliore dei modi: suono puro e tridimensionale che si è immediatamente fuso con il pianoforte nelle battute successive. Nella Sonata op. 47 di Beethoven, l’energia di Krylov e la forza percussiva di Say si sono incontrate in un equilibrio perfetto.

Il Presto iniziale, acceso da un gesto quasi sinfonico, ha trovato in Say un motore pulsante, ritmico, nervoso — ma sempre profondamente musicale — e in Krylov un canto graffiato, sulfureo, dallo smalto metallico e seducente. L’istrionismo del violinista, che l’affezionato pubblico cremonese ben conosce, lungi dall’essere narcisistico, è divenuto materia drammatica: l’arco come fiamma nei balzati verticali e velluto nei fraseggi melodici, il corpo come naturale prolungamento del suono.

Nell’Andante con variazioni i due musicisti hanno raggiunto una comunicazione rarefatta, costruita nei respiri condivisi e nei piccoli miracoli del fraseggio; la forma del tema con variazioni ha dato modo alle straripanti personalità dei due musicisti di emergere anche singolarmente nei momenti di protagonismo assegnati dal genio beethoveniano a entrambe le parti; nel Finale la tensione ritmica, mai meccanica, si è sciolta in una danza libera e luminosa.

Un Beethoven non “classico”, ma pienamente teatrale, con Say estroso ‘direttore di sé stesso’ ogni volta che una delle due mani libera dalla tastiera gli permetteva di accompagnarsi con una gestualità danzante e Krylov esuberante a tal punto da sacrificare una corda, saltata a poche battute dal termine del Finale. Un’interpretazione da leggere più nella cifra dell’arte affabulatrice di un consumato oratore che nella compostezza del raziocinio di un progetto architettonico. 

Nel Preludio e morte di Isotta di Wagner, rielaborato da Say, il pianoforte si è trasformato in orchestra e l’armonia wagneriana si è piegata al respiro del duo. Say, abile compositore, ha scolpito i cromatismi dell’iconico ed enigmatico Tristanakkord come simbolo di una domanda che resta aperta, sospesa fra eros e annientamento. Krylov vi si è inserito con un suono febbrile, quasi vocale, cercando nella linea del violino il filo fragile dell’attesa. L’intensità mai gridata, semmai lussureggiante: il suono si è fatto sostanza fisica e spirituale insieme. È una lettura che, senza rinunciare al pathos, è riuscita a restituire l’ambiguità armonica di Wagner come metafora della condizione umana: il desiderio che non trova mai compimento.

Con la Sonata n. 2 “Kaz Dağı – Mount Ida”, Fazil Say ha portato il pubblico nel suo universo poetico, dove il linguaggio musicale diventa dichiarazione etica. Composta nel 2019 in risposta alla devastazione ambientale del Monte Ida, l’opera è un grido e una preghiera.

Nel primo tempo, Doğa Katliamı (Decimation of Nature), il pianoforte è esploso in ritmi tellurici, quasi tribali, ottenuti agendo direttamente sulle corde del pianoforte, trattenute o arpeggiate a mani nude, mentre Krylov sembrava incarnare la voce della natura ferita: suoni acuminati, gesti arditi, esplorando l’intera gamma delle possibilità timbriche del violino: armonici, arco usato con il legno, pizzicati, suoni di ponticello, ottave in zone estreme della tastiera, una rappresentazione scenica che ha riempito la sala.

Nel secondo movimento, Yaralı Kuş (Wounded Bird), il violino ha intonato una melodia lacerata, straziata e interrotta da onomatopee musicali — trilli, fruscii d’archetto, pizzicati-soffio — che evocavano il battito d’ali di un uccello ferito, glissando a comporre il gorgheggiare di un merlo. 

È qui che Krylov, con il suo fraseggio febbrile e il controllo visionario del suono, ha toccato il vertice dell’interpretazione: un lirismo struggente, sospeso tra energia e dolore. La rappresentazione in musica di quello che accade quando la logica del denaro non si ferma neanche di fronte allo scempio provocato dall’abbattere alberi secolari, incurante del momento magico in cui nel segreto calore dei nidi le uova si schiudono nel pigolio che annuncia la vita. 

Il finale, Umut Ayini (Rite of Hope), ha chuso il cerchio in un crescendo mistico: ritmo ciclico su un pattern melodico ostinato, modulazioni che sembravano respirare con il pubblico in una sorta di rito collettivo di rinascita. Qui gli echi stravinskiani si sono fatti evidenti, quasi un tributo reverenziale al sacerdote indiscusso dei sacrifici ancestrali. È musica che non si ascolta soltanto: si vive.

Krylov e Say non formano un duo nel senso tradizionale: sono due poli magnetici che si attraggono e si respingono in un continuo scambio di energia. Say, con la sua presenza vibrante e la gestualità intensa, controlla il tempo e lo spazio; Krylov lo incendia, lo fa vibrare, lo traduce in gesto fisico.

Il risultato è una musica che travalica lo spartito, quasi una drammaturgia sonora in tre atti: amore, morte e rinascita.

Alla fine rimane la sensazione di aver assistito a un atto poetico e civile, in cui il virtuosismo diventa mezzo e non fine, e dove l’incontro di due personalità ardenti si trasforma in un racconto universale.

Nel silenzio successivo all’ultima nota, il ricordo del Tristanakkord wagneriano sembra ancora risuonare, irrisolto, come la vita stessa, ma trasfigurato in speranza.

Un concerto che ha riconciliato intelletto e istinto, tecnica e poesia: il suono, finalmente, come forma di verità.

Le ripetute ovazioni sono state premiate con le ultime due danze rumene di Bartók, le indiavolate Poarga Românească e Mărunţel, degna conclusione di un concerto sopra le righe.

Prossimo appuntamento venerdì 7 novembre con la fisarmonica di Richard Galliano.

Fotoservizio Francesco Sessa Ventura

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Angela Alessi

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