Oratori estensi per Mary of Modena, Maria Beatrice d’Este Stuart regina d’Inghilterra

25 set 2025

L’oratorio, dramma in musica in forma di concerto d’argomento sacro o moraleggiante, ispirato a temi biblici o alle vite dei santi, godette di uno straordinario successo durante il governo di Francesco II d’Este (1660-1694), duca di Modena, regnante dal 1674 dopo aver esautorato la madre reggente Laura Martinozzi, nipote del cardinale Giulio Mazarino, vedova dal 1663 del duca Alfonso IV. Cultore della musica e in particolare della forma oratoriale, Francesco II favorì col suo mecenatismo una ricchissima produzione che fece di Modena uno dei più fiorenti centri musicali nell’ultimo quarto del Settecento : centodieci furono gli oratori eseguiti fra il 1680 e il 1702 sotto il suo regno e nei primi anni di quello dello zio Rinaldo, salito al trono nel 1694. Un successo dovuto alla stessa tipologia dell’oratorio, che per la materia religiosa e moraleggiante poteva venir rappresentato anche nei periodi, come la Quaresima e l’Avvento, in cui i consueti spettacoli erano vietati, soddisfacendo in modo lecito l’esigenza di mondanità e di diporto avvertita da una corte. Composti dai provetti musicisti e dai letterati gravitanti attorno alla Cappella Ducale, o “importati” da altri centri, fra i quali Modena si pone quale “polo d’attrazione”, gli oratori allestiti durante il ducato di Francesco talvolta riflettono la contingenza politica del suo Stato, come quelli celebrativi della dinastia estense - dynastic tribute, secondo la definizione di Victor Crowther - specie a seguito di un prestigioso matrimonio. Infatti, la sorella dello stesso duca, Maria Beatrice (1658-1718), andrà sposa al duca di York Giacomo Stuart, fratello del re Carlo II d’Inghilterra, con cerimonia per procura del 30 settembre 1673. Le nozze fra la quindicenne principessa, che avrebbe desiderato prendere il velo nel monastero della Visitazione di Modena, e l’ultracinquantenne duca erano state vivamente caldeggiate da Luigi XIV di Francia e soprattutto da papa Clemente X Altieri anche perché Giacomo Stuart, erede della corona in quanto re Carlo era privo di prole legittima, con la sua recente conversione al cattolicesimo apriva la prospettiva del ritorno dell’Inghilterra nella Chiesa romana. E così, alla morte del fratello nel 1685, il duca di York salirà al trono come Giacomo II Stuart, con accanto Maria Beatrice, Mary of Modèna, unica regina d’Inghilterra di nascita italiana. Ma la profonda frattura di carattere religioso fra i sovrani cattolici e la nazione, in prevalenza protestante e antipapista, condurrà alla Gloriosa rivoluzione del 1688, che vedrà la coppia regale con il figlioletto Giacomo Francesco Edoardo - il futuro pretendente Giacomo III, che avrebbe dovuto proseguire la dinastia cattolica - rifugiarsi presso la corte francese di Luigi XIV; sull’Inghilterra regneranno i “sovrani congiunti” di fede protestante Guglielmo III d’Orange e la consorte Maria II Stuart, figlia dello stesso Giacomo II dalle prime nozze con Anne Hyde.

Vari oratori contengono allusioni alle vicende di Maria Beatrice d’Este, tutti accomunati dalla volontà di «accreditare le salde virtù cristiane e l’incrollabile fede cattolica della casata estense presso il papa e gli altri regnanti europei». Il primo è La Gran Matilde, citato anche come La Matilde d’Este, con testo di Alfonso Colombo, o Colombi, e musica di don Antonio Maria Pacchioni (1654-1738), saggio oratoriale fra i più alti della pur rigogliosa produzione sotto il patronato estense, rappresentato nel 1682 nello scomparso oratorio di San Carlo Rotondo, luogo prediletto dal duca per questi intrattenimenti. Come altri oratori, s’ispira a un “antenato” estense; o meglio, nel caso di Matilde di Canossa, vagheggiato tale dalle genealogie “mitiche”: la Gran Contessa, infatti, è legata alla dinastia estense soltanto da quegli esilissimi fili che congiungevano pressoché tutte le grandi casate medievali. Nel suo libretto chi scrive ha individuato elementi che alludono con evidenza ai preliminari delle nozze di Maria Beatrice. Intanto, se Matilde è figura funzionale alla promozione della nobilitas della Casa d’Este, è anche exemplum di regnante fedele alla Chiesa durante la lotta per le investiture, che vide l’imperatore Enrico IV opporsi a papa Gregorio VII; in quel frangente di “scisma” nella cristianità, che nel Seicento fu visto come prefigurazione dello scisma della Riforma protestante, Matilde sostenne il Papato, in un ruolo che molti contemporanei attribuirono a Maria Beatrice. E infatti la lettera dedicatoria dell’oratorio a firma di Alfonso Colombi, rivolta a Francesco II, esordisce chiamando la «vostra gran MATILDE (…) grande Eroina Protettrice del Vaticano». La storia della Gran Contessa viene dunque arbitrariamente riscritta per farla collimare con tratti biografici di Maria Beatrice, così che la scelta di Matilde – quella del libretto, s’intende - sia prefigurazione della sofferta scelta della mite principessa modenese. L’Argomento anticipa e riepiloga la trama dell’oratorio, intessendo un fantasioso racconto delle seconde nozze di Matilde – dopo le prime con Goffredo il Gobbo di Lorena – con Guelfo V di Svevia, della dinastia di Baviera, nel 1089. Per opporsi all’imperatore «Enrico fierissimo persecutore della Chiesa», il papa stabilisce l’unione fra Matilde e Guelfo e invia un nunzio a Canossa per «persuadere la Contessa alla conclusione di sì gran nozze»; ma Matilde, volendo «menare una vita illibata, e casta (…) ricusò di unirsi con Guelfo». Poi, «alla fine persuasa dagl’efficaci motivi del Nunzio (…) mà molto più per obedire (…) rispose che s’associerebbe à Guelfo», senza però consumare il matrimonio: «purché resti sicuro il celibato mio». Enrico, venuto a conoscenza dell’imminente unione, muove allora verso Canossa con l’intenzione di sposare egli stesso Matilde. Ma ecco che, con repentina svolta del dramma nel lieto fine, Guelfo «giunse in tempo»: grazie a lui «generosamente resisteano alla difesa l’armi Cattoliche, e disfatto il Campo nemico». Guelfo rispetterà la condizione posta dalla futura sposa: «Difensor non che consorte / Tuo Candor custodirà»; così che le nozze si celebreranno fra «gl’applausi d’un tanto trionfo». Una trama quanto mai fantasiosa che, fra l’altro, sistema nel modo più ortodosso e anzi edificante la questione del secondo matrimonio di Matilde, «mai consumato e molto chiacchierato». Il Testo, e cioè il narratore che dipana il filo del racconto, esordisce con la rivolta scismatica di Errico IV applaudita dagli inferi - «D’empio scisma ribelle / Da gl’horrendi latrati, / Impallidia la Fede / E ne Facean d’applausi / Echo gl’Abissi» - in evidente parallelo rispetto alla Riforma protestante che minava la fede cattolica. Così, la Matilde tratteggiata dal librettista, che oppone un primo rifiuto alle nozze con Guelfo, benché “campione” della fedeltà al papato, per scegliere un’esistenza dedicata a Dio pare alludere al primo diniego di Maria Beatrice, intenzionata a farsi monaca. Ma come la Matilde del libretto cede alle pressioni del nunzio papale - «… alta Donna / (...) / Vuolle al Cielo obbedir, e al Nunzio ancora…» - così Maria Beatrice cederà alle esortazioni di Clemente X, dapprima per il tramite del suo confessore, il gesuita Andrea Galimberti, quindi indirizzandole un Breve che la impegnava al sostegno della causa cattolica nell’Inghilterra anglicana. E se nel libretto «…caderà / L’Eretico fellon al suolo estinto», così che «di doppio Sol splendan due reggie», ben diverso sarà il finale che la storia riserverà al sacrificio di Maria Beatrice.

Secondo la convincente ipotesi di Arnaldo Morelli, un altro oratorio alluderebbe alla biografia di Maria Beatrice: la Santa Editta, vergine e monaca, regina d’Inghilterra, con testo del principe romano Lelio Orsini, musicato da Alessandro Stradella e rappresentato a Modena in San Carlo Rotondo nel 1684, con la probabile direzione del bolognese Giovan Battista Vitali, maestro della cappella estense dal 1684 al 1692. L’oratorio parrebbe però composto a Roma negli anni 1672-1673 e quindi durante le trattative delle nozze Este-Stuart. La storia di Editta, Edith di Wilton vissuta nel X secolo, figlia naturale del re anglosassone Edgardo il Pacifico, venerata come santa per volontà del fratellastro re Etelredo, era pressoché sconosciuta in Italia e resta un unicum nella produzione musicale: un improvviso interesse che, come Morelli sottolinea, si spiega con la contingenza politica e l’intento propagandistico. Editta rifiuta la corona d’Inghilterra propostale da alcuni nobili  per rimanere nell’Abbazia di Wilton. In effetti, la sua figura storica è piena di ombre in quanto, pur scegliendo la vita claustrale, non rinunciò al fasto esteriore e alle vesti preziose. Aspetti che l’oratorio evita, preferendo argomentare una disputa fra la principessa e cinque personificazioni: quattro di esse, Grandezza, Bellezza, Nobiltà e Senso, la spingono al trono e ad aprirsi al mondo, mentre la sola Umiltà ne sostiene la scelta religiosa. Lo si può quindi considerare la celebrazione di un’esemplare principessa assieme all’esortazione a una santa vita.  

L’incoronazione dei sovrani cattolici, il 23 aprile 1685 nell’abbazia di Westminster a Londra, fu solennizzata a Modena da una «Accademia della Coronatione della Regina d’Inghilterra», con una cantata di Giovanni Battista Vitali dal trionfante titolo Donde avien che tutt’ebro di vera gioia l’universo: «Nell’anglica sede, / Vessillo di Fede, / Già dispiega la Pietà», così la prima delle tre “arie”. La sede fu quella dell’Accademia dei Dissonanti, istituita da Francesco II nel 1683, che teneva le sue riunioni dapprima nella vasta chiesa di Santa Margherita dei Minori francescani e poi nella Sala Grande del Collegio dei Nobili o San Carlo, sotto la guida del suo primo segretario, Giovan Battista Giardini, poeta e librettista nonché segretario di Lettere del duca,. 

Dichiaratamente politico è l’oratorio L'Ambitione debellata overo la Caduta di Monmuth, su musica di Vitali, con testo del veneziano Giovanni Andrea Canal, il cui libretto fu stampato in Modena, per gli eredi Soliani, nel 1686. E’ celebrativo della repressione da parte di Giacomo II, da poco sul trono inglese, della rivolta capeggiata dal nipote James Scott I° duca di Monmouth 1649-1685), figlio naturale di Carlo II e pretendente protestante al trono. Rappresentato in San Carlo Rotondo, è un dramma allegorico con emblematici personaggi: la «Sacra Maestà del Re d’Inghilterra» a cui corrisponde l’Innocenza, alla Regina la Fede, alla Ragione il Testo, l’Ambizione al Duca di Monmuth e al Tradimento il Conte d’Argile. Serrato è il confronto fra il personaggio della Regina, in cui s’adombra Maria Beatrice che difende il cattolicesimo, e Monmouth suo antagonista, con duetto finale in cui la coppia regnante festeggia la vittoria.

E mentre l’Europa cattolica guardava con compiacimento alla corte inglese “riconquistata” a quella fede, e quindi al piccolo ma cruciale Stato estense – sempre d’importanza geografico-strategica, ma a quel punto anche politica – si organizzavano festeggiamenti nella capitale dei papi. Ormai nel 1687, la regina Cristina di Svezia, stabilmente insediatasi a Roma, allestì a Palazzo Riario una sontuosissima “Accademia per musica” in onore di Lord Roger Castlemaine, ambasciatore di re Giacomo II presso Innocenzo XI: una cantata di Bernardo Pasquini su testo di Alessandro Guidi con un’orchestra di centocinquanta elementi diretta da Arcangelo Corelli, in forma di dialogo tra «Londra / Tamigi / Fama / Genio Dominante / Genio Rubelle» e un coro di un centinaio di voci, per celebrare la nazione inglese e il suo nuovo sovrano.  

Così, la nascita del figlio di Maria Beatrice il 10 giugno 1688, che consolidava le speranze di una restaurazione cattolica in Inghilterra – in realtà, fattore forse decisivo per l’imminente Gloriosa Rivoluzione – vede esplodere feste e celebrazioni. A Modena, dove la notizia giunge il 30 giugno, si gioisce persino nella clausura dei monasteri. Suor Maria Felice, al secolo principessa Fidaura Farnese, badessa delle Benedettine di Sant’Eufemia, in una lettera del 30 giugno 1688 al congiunto Cesare Ignazio d’Este, cugino della regina, mentre si congratula per l’erede al trono inglese, così confida: «non ho potuto trattenere le lagrime nel cantare che habbiamo fatto il Te Deum in Coro…». E ancora: «facissimo cantare una Messa Solenne (…) perché il Signore benedicesse la Corona Regia di ch’è coronata la Maestà della Regina». Nel Duomo, scrive Lodovico Antonio Muratori, «un solenne Te Deum [fu] cantato da i più eccellenti musici d’Italia», e venne spedito a Londra per le felicitazioni il cortigiano più autorevole, il marchese Bonifacio Rangoni; il quale vi giunse «in tempo d’esser spettatore d’una memorabil Tragedia», e non senza rischi personali: i sovrani Stuart avevano lasciato l’Inghilterra, riparando nel castello francese di Saint-Germain sotto la protezione di Luigi XIV.

Ancora a Roma, il cardinale Benedetto Pamphili nella Sala del suo palazzo in piazza Navona, il 31 marzo 1689 fece rappresentare un altro oratorio che conterrebbe riferimenti alla figura di Maria Beatrice, ormai deposta: la Santa Beatrice d’Este, su musica di Giovan Lorenzo Lulier “dal Violone”, segretario di Casa Pamphili, con libretto già attribuito allo stesso cardinale, ma presumibilmente di Giulio Cesare Grazzini, segretario dell’Accademia degli Intrepidi di Ferrara, con sinfonia introduttiva di Arcangelo Corelli, all’epoca al servizio del cardinale. Fu uno straordinario evento, sotto l’egida del munifico porporato, alla presenza del cardinale Rinaldo d’Este, discendente della “Santa” Beatrice e zio di Maria Beatrice. Le relazioni degli ambasciatori ne descrissero la fastosa mise-en-scène, che vide impegnati musicisti ed esecutori fra i più illustri nella Roma pontificia: vi suonarono lo stesso Corelli come primo violino, Matteo Fornari secondo violino, Lulier “violone di concertino”, Francesco e Giovanni Battista Gasparini alle viole, in un’orchestra composta da quaranta violini, dieci viole, diciassette violoncelli e sette “doppi bassi” - contrabbassi - oltre a due trombe e un trombone. Il resoconto conservato nell’Archivio Estense riferisce del sontuoso allestimento del salone che, pur evitando le strutture scenografiche, peraltro improprie nella forma oratoriale, dovette incantare l’eletto pubblico: «La Gran Sala (…) era addobbata con Apparato di Broccato liscio, framezzato con Colonnate di Ricamo d’oro, ricchissimo, della già Principessa di Rossano [Olimpia Aldobrandini Pamphili]». Era stato eretto un palco «come di Scena, su’l quale stava situata à prospettiva una grande Scalinata, coperta di Tappeti di seta, alla Turchesca e, in essa, disposti con vaga leggiadria, ottanta suonatori, con li loro stromenti. In detta scalinata erano ripartiti molti Gigli dorati, et Aquile [entrambi emblemi araldici estensi] che sostenevano i lumi (…) e facevano scabello alle carte musicali de Suonatori. A piedi di essa, stava l’Orchestra, alta un Braccio da Terra, per li Cantanti (…). Dall’altro capo della Sala, stava situata una Tribuna, per un altro corpo di venti strumenti, alta sei Braccia da Terra, et addobbata con Parati». Con gli esecutori così distribuiti, «la pienezza de gli Istromenti, col fondo di tanti Contrabassi, uniti alle Trombe, faceva tal rimbombo, che pareva se ne risentisse la Sala». In quanto alle voci dei cinque Interlocutori, «furono delle migliori di Roma»: «Giuseppino d’Orsini», ovvero il sopranista Giuseppe Ceccarelli, interpretava Santa Beatrice; «Montalcino», il contralto Bartolomeo Monaci, Santa Giuliana; «Verdoni Baritono di Cappella» il Consigliere; «Silvio tenore del Sig. Ambasciatore di Spagna» Ezzelino; infine, «il Bolsena», il sopranista Andrea Adami, dal 1714 maestro della Cappella Pontificia, interpretava l’Angelo che cantò dalla tribuna sopraelevata, separatamente dagli altri. Nel libretto della Santa Beatrice, ispirato alla monaca del XIII secolo sempre presente nel Pantheon agiografico di Casa d’Este, beatificata dal culto popolare ma mai canonizzata, si immagina la protagonista insidiata dal tiranno Ezzelino da Romano che intende sposarla. Ma al di là dell’omonimia, non si colgono riferimenti diretti alla sua discendente, se non del tutto generici, come la comune nobiltà di nascita: «Beatrice (...) / In te degli Avi egregi / O qual raggio di Gloria arder rimiro», così Santa Giuliana; o il desiderio di Beatrice di evitare spargimenti di sangue: «Non calpesti al prato il fiore / Di falangi armate il piede»; o il finale di speranza nel destino ultraterreno: «Chiude la via de’ Giusti / Di terreno dolor Spine nascoste / Ma per chi le coltiva apronsi in Rose». Dunque, più che alla deposta regina, si ritiene l’oratorio omaggio allo zio cardinale Rinaldo e alla stirpe estense: all’ingresso nel salone dei due cardinali «si spartì in due parti l’Apparato» e cioè il sipario, e «raccoltosi in pieghe, formò un mezo Padiglione» sormontato dallo stemma estense. In Modena, la Santa Beatrice d’Este avrà immediata risonanza, rappresentata in quello stesso 1689 davanti a Francesco II in San Carlo Rotondo; e ancora sarà replicata nel 1701, ormai regnante lo stesso Rinaldo che, alla morte senza eredi diretti del nipote duca, aveva rinunciato al cardinalato per dar continuità alla Casa d’Este. 

L’attività musicale della corte di Francesco II non mancò di registrare la costernazione per la perdita del trono da parte di Giacomo II e Maria Beatrice. La recente storiografia, infatti, interpreta Il Giona, con testo dell’abate lucchese Domenico Bartoli e musica di Giovan Battista Vitali, presentato in San Carlo Rotondo sempre nel 1689, come oratorio riferibile alla situazione inglese, adombrando la condanna della posizione confessionale dei nuovi sovrani, protestanti. In due parti, con ben sette “Interlocutori” - Dio, Angelo, Giona, Re, Regina, Capitano, Servo più il Coro – vede il profeta Giona esortare il popolo di Ninive al pentimento – «Mesto cor / Placa il Cielo» – e il Coro invocare: «O Numi pietà (…) / La spada non cada / che i Regni disfà». Segue la mortificazione e il ravvedimento dei sovrani; così la Regina: «Il tuo Nome oltraggiai benigno Dio, / Or vo’, che il labro mio / Lieto risuoni i tuoi sublimi honori…». E dopo la conversione del Re e della Regina, la misericordia di Dio: «Monarchi afflitti asserenati il ciglio / (…) Voi perdon mi chiedete, io vi perdono».  

Altri ancora potrebbero essere gli oratori legati alla corte di Modena che sottintendano rimandi al destino degli Stuart e alla Gloriosa Rivoluzione. Sembra ora di coglierli ne Il fasto depresso nell’umiltà esaltata. Oratorio per S. Edoardo II Re d’Inghilterra, su libretto di Michele Pallai e musica di Clemente Monari, dedicato a Francesco II e rappresentato in San Carlo Rotondo nel 1692. Con cinque “Interlocutori” – Testo, Sant’Edoardo, Alfreda Matrigna di sant’Edoardo, San Dunstano Arcivescovo di Canturbia [Canterbury], Inghilterra – la trama si sviluppa attorno a una congiura nella corte inglese, in cui la matrigna regina Alfreda uccide il figliastro sant’Edoardo, le cui spoglie, recuperate e venerate, si riveleranno miracolose. Tra le righe si intravedono allusioni alla nuova sovrana Maria Stuart d’Orange, nelle parole del Testo contro Alfreda: «Quando Inghilterra, udite / Le frenesie d’Impero / Dell’ iniqua Reina, / E che alle voglie ingiuste / Consente ogni Primate [maggiorente]/ (…) / Temuto scettro impugna»; o ai maggiorenti inglesi che offrirono la corona agli Orange, quando l’Inghilterra esclama: «Conseglio perfido, / Ministri barbari, / Senza pietà. / Lo scettro porgesi, / Al Soglio inalzasi / La crudeltà?»; o ancora, al sostegno di Giacomo II al cattolicesimo nelle espressioni del Testo su sant’Edoardo: «Alle regie strutture / De sacri Tempij intento, / Il Britannico Rege, / La Cattolica Fede / Più, che il suo Regno à propagar si vede». 

Le regali nozze di Maria Beatrice costituirono un brillante traguardo nella politica matrimoniale estense, portando il ducato estense alla ribalta internazionale e legandolo ai destini di un regno tanto potente e prestigioso come quello inglese. Fu un’unione così carica di contenuti politici, confessionali e ideologici che non mancò di ispirare, nei momenti sia di gloria che di sventura, illustri compositori come Alessandro Stradella, Arcangelo Corelli, Antonio Maria Pacchioni, Giovan Battista Vitali e Giovan Lorenzo Lulier e altri ancora, peraltro in una felicissima stagione musicale, fra la Modena di Francesco II e la Roma pontificia.           

 

Didascalie

1. Fine sec. XVIII, Maria Beatrice d’Este Stuart regina d’Inghilterra. Camera dei Verdi, Palazzo Ducale di Sassuolo (Modena).

2. Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718), Francesco II d’Este duca di Modena, acquaforte.

3. Benedetto Gennari (1633-1715), Maria Beatrice d’Este Stuart e il figlioletto Giacomo. Collezione privata. 

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Graziella Martinelli Braglia

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